C'è questo libro di Peter Carey che leggiucchiamo nei tempi morti (quasi mai) del viaggio in corso. Carey è un appassionato del Giappone classico, della sua pittura, del Kabuti e del No. Il giorno in cui scopre in suo figlio adolescente una passione sfrenata per alcuni manga, decide di partire con lui per questo paese.
Il suo intento è quello di portare alla luce la continuità della cultura classica con le iperboliche trame dei manga, il richiamo che i loro personaggi fanno ai miti che si credono perduti, l'evidente parentela del disegno a fumetti con le arti figurative del passato.
Carey, però, riceve una battuta d'arresto quando, in merito a una sua sollecitazione riguardo a un agguerrito personaggio di manga e al culto giapponese della spada, riceve questa risposta da un disegnatore, nonché critico di questa arte pop:
Sapere una cosa a metà a volte è peggio di non saperla per niente.
Il critico si riferiva alle parole, ai diversi livelli di significato, alla tendenza occidentale nei confronti del Giappone di fermarsi alla superficie. E quindi a sbagliare tutto.
Insomma, meglio non capire che cercare d'interpretare sbagliando.
Esattamente come quei ragazzi americani che oggi giocavano con la playstation portatile durante la visita guidata al palazzo imperiale. Ma chissà, forse facevano un gioco ispirato a un anime.
Come arrivare a comprendere ai nostri occhi la lentezza e i significati più profondi della vita all'interno del palazzo reale? Come intendere, se non attraverso gli occhi sgranati e le narici aperte, il senso di quelle costruzioni così imponenti e belle, il valore intrinseco di una struttura dotata della maestosità del legno?
E il Padiglione d'oro. E' sufficiente fermarsi a gustare la bellezza di quello scenario stretto fra le colline, inspirarne il profumo e lasciare andare le endorfine.
E forse è meglio non dannarsi l'anima per arrivare a capire. Perché tanto non arriveremo a capirlo fino in fondo questo Giappone. Non sappiamo neppure infilare la giusta successione di salse del tempura che abbiamo mangiato da Katsukura all'undicesimo piano della Kyoto station. E non capiamo perché quaggiù le stazioni delle grandi città sembrano (e in parte sono) dei centri commerciali tirati a lucido, scintillanti e ordinate, dei luoghi dove incontrasi, passeggiare e fare shopping oppure cenare. Dei luoghi dove (per dirne una) i corrimano delle scale mobili vengono quotidianamento puliti da un addetto dedicato a questa mansione.
E non capiamo perché in Italia questo non succede. Perché Santa Maria Novella, Termini, Milano Centrale, Porta Nuova a Torino sono invece quello che sono.
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