Il successo di questo romanzo, prima ancora del libro in sé, mi ha messo una certa curiosità, non posso nasconderlo. Un giorno in libreria l’ho preso in mano e ne ho saggiato la scrittura sulle prime dieci pagine.
Poi l’ho posato.
In seguito ho saputo dei premi importanti che ha sfiorato e di quelli che ha ottenuto. E delle traduzioni, del successo travolgente in Francia, delle classifiche scalate in Italia.
E allora l’ho comprato, per spiegarmi quello che per me era il mistero di un successo.
Mal di pietre è la storia di una donna che attraversa la guerra, gli anni cinquanta e i decenni successivi. E’ la storia di una Cagliaritana che va in sposa ad uno sfollato che ha perso la famiglia in un bombardamento, senza amarlo. Senza essere amata. Una donna affetta dal mal di pietre, i calcoli, ma che soffre anche di un male più profondo. Un dolore che la isola, che la spinge all’autolesionismo e che respinge tutti i corteggiatori, ma non quell’uomo entrato nella casa di suo padre. Quell’uomo non le darà amore, ma nemmeno lo chiederà. E così lei, giunta per la prima volta in Continente per curare il suo male soggiornando alle terme, conoscerà l’amore di un reduce milanese che saprà conquistare la sua anima.
Ma mal di pietre è anche la storia di tre generazioni di sardi. Del figlio musicista (che in realtà è un personaggio appena abbozzato e inconsistente), della suocera di questo (che occupa inaspettatamente buona parte delle pagine finali) e di una nipote, l’unica persona con cui la nonna, insieme al reduce, sia mai riuscita a parlare apertamente. Ed proprio questa, la nipote, la voce narrante del romanzo. Ed è su questa voce che occorre spendere qualche parola.
“Il reduce soffriva dello suo stesso male e anche i suoi reni erano pieni di pietre. Aveva fatto la guerra, tutta. Da ragazzo leggeva sempre i romanzi di Salgari ed era andato volontario in Marina, gli piacevano il mare e la letteratura, le poesie soprattutto, che lo avevano sostenuto nei momenti più difficili. Finita la guerra si era laureato e da poco si era trasferito da Genova a Milano, dove insegnava Italiano e cercava in tutti modi di non annoiare gli alunni e viveva in una casa di ringhiera al piano rialzato, in due stanze tutte bianche senza niente del passato.”
Ecco. La narrazione della ragazza, che riporta i racconti ascoltati dalla nonna ormai morta, in questo, e in molti altri passaggi, soffre di un conformismo che vorrebbe essere spacciato per leggerezza. Il linguaggio utilizzato, che non è essenziale né asciutto per l’abuso di un periodare spesso troppo articolato, mette in luce tutti i limiti di una vicenda dallo svolgimento convenzionale, molto simile a tante altre già lette, ma priva di un’originalità che la carichi di valore. Il mal di pietre, in altre parole, sia per il contesto storico-ambientale, che per la rappresentazione dei personaggi e, per alcuni versi, anche per il carattere delle vicende umane narrate, pare volersi apparentare ai romanzi della Allende, di Agota Kristof o ancora di più della Mariolina Venezia. Ma in questo libro la Agus non dimostra di saper presentare dei personaggi dotati della forza evocativa di cui è capace la scrittrice cilena, né di costruire una scrittura che supporti l’asprezza della vicenda umana tipica dell’ungherese e nemmeno l’originalità e la cura del particolare apprezzata in Mille anni che sto qui.
In questo romanzo, capofila di una nuova corrente che si potrebbe coniare come realismo fiabesco, rimane la qualità di saper gestire i tempi delle rivelazioni e degli svelamenti, oltre a quella di dosare qui e là alcune righe di tenerezze in grado di compiacere il lettore più sentimentale. Rimane anche la scelta di un finale a sorpresa (tutto sommato convenzionale anche questo) che permette di chiudere una storia che si appropria di alcuni decenni di vita italiana visti da una lontana provincia (un condimento che, si sa, permette a molti lettori di mettere se stessi dentro al libro).
Il successo è tutto qua, in un libro che sa di esordio (senza esserlo) con qualche qualità e molti limiti. E con questo penso alle numerose traduzioni a cui questo libro è destinato e mi domando se davvero in questi anni la letteratura italiana di esportazione sia tutta qua.
Poi l’ho posato.
In seguito ho saputo dei premi importanti che ha sfiorato e di quelli che ha ottenuto. E delle traduzioni, del successo travolgente in Francia, delle classifiche scalate in Italia.
E allora l’ho comprato, per spiegarmi quello che per me era il mistero di un successo.
Mal di pietre è la storia di una donna che attraversa la guerra, gli anni cinquanta e i decenni successivi. E’ la storia di una Cagliaritana che va in sposa ad uno sfollato che ha perso la famiglia in un bombardamento, senza amarlo. Senza essere amata. Una donna affetta dal mal di pietre, i calcoli, ma che soffre anche di un male più profondo. Un dolore che la isola, che la spinge all’autolesionismo e che respinge tutti i corteggiatori, ma non quell’uomo entrato nella casa di suo padre. Quell’uomo non le darà amore, ma nemmeno lo chiederà. E così lei, giunta per la prima volta in Continente per curare il suo male soggiornando alle terme, conoscerà l’amore di un reduce milanese che saprà conquistare la sua anima.
Ma mal di pietre è anche la storia di tre generazioni di sardi. Del figlio musicista (che in realtà è un personaggio appena abbozzato e inconsistente), della suocera di questo (che occupa inaspettatamente buona parte delle pagine finali) e di una nipote, l’unica persona con cui la nonna, insieme al reduce, sia mai riuscita a parlare apertamente. Ed proprio questa, la nipote, la voce narrante del romanzo. Ed è su questa voce che occorre spendere qualche parola.
“Il reduce soffriva dello suo stesso male e anche i suoi reni erano pieni di pietre. Aveva fatto la guerra, tutta. Da ragazzo leggeva sempre i romanzi di Salgari ed era andato volontario in Marina, gli piacevano il mare e la letteratura, le poesie soprattutto, che lo avevano sostenuto nei momenti più difficili. Finita la guerra si era laureato e da poco si era trasferito da Genova a Milano, dove insegnava Italiano e cercava in tutti modi di non annoiare gli alunni e viveva in una casa di ringhiera al piano rialzato, in due stanze tutte bianche senza niente del passato.”
Ecco. La narrazione della ragazza, che riporta i racconti ascoltati dalla nonna ormai morta, in questo, e in molti altri passaggi, soffre di un conformismo che vorrebbe essere spacciato per leggerezza. Il linguaggio utilizzato, che non è essenziale né asciutto per l’abuso di un periodare spesso troppo articolato, mette in luce tutti i limiti di una vicenda dallo svolgimento convenzionale, molto simile a tante altre già lette, ma priva di un’originalità che la carichi di valore. Il mal di pietre, in altre parole, sia per il contesto storico-ambientale, che per la rappresentazione dei personaggi e, per alcuni versi, anche per il carattere delle vicende umane narrate, pare volersi apparentare ai romanzi della Allende, di Agota Kristof o ancora di più della Mariolina Venezia. Ma in questo libro la Agus non dimostra di saper presentare dei personaggi dotati della forza evocativa di cui è capace la scrittrice cilena, né di costruire una scrittura che supporti l’asprezza della vicenda umana tipica dell’ungherese e nemmeno l’originalità e la cura del particolare apprezzata in Mille anni che sto qui.
In questo romanzo, capofila di una nuova corrente che si potrebbe coniare come realismo fiabesco, rimane la qualità di saper gestire i tempi delle rivelazioni e degli svelamenti, oltre a quella di dosare qui e là alcune righe di tenerezze in grado di compiacere il lettore più sentimentale. Rimane anche la scelta di un finale a sorpresa (tutto sommato convenzionale anche questo) che permette di chiudere una storia che si appropria di alcuni decenni di vita italiana visti da una lontana provincia (un condimento che, si sa, permette a molti lettori di mettere se stessi dentro al libro).
Il successo è tutto qua, in un libro che sa di esordio (senza esserlo) con qualche qualità e molti limiti. E con questo penso alle numerose traduzioni a cui questo libro è destinato e mi domando se davvero in questi anni la letteratura italiana di esportazione sia tutta qua.
9 commenti:
Ari-ciao...
Ho deciso che definitivamente il vostro blog mi piace davvero troppo e quindi, vivendo sto casino come voi, vi leggerò spesso! Anzi mi sa che vi linko direttamente!! Ma voi di dove siete? E dove vivete? (treni a parte)...
:-)
ciaooo!
benarrivata sul nostro "unmondo" :-)
vedo che condividiamo la stessa sorte di innamorati a distanza!
due coppie tra gli Appenini e le Alpi! ma voi a km ci battete!
sono curiosa di leggerlo sia perchè la protagonista è cagliaitana come me, sia perchè voglio vedere se vedrò il libro come te....ti farò sapere appena riuscirò a leggerlo :)
P.S.
Hai mai letto Niffoi? E' gradevole come lettura anche se io preferisco l'autore di 'passavamo sulla terra leggeri' di cui ora non ricordo il nome...Sono due scrittori sardi che a parer mio meritano.
Ciao Coniglia,
è di ieri la notizia del secondo posto di Mal di Pietre al Campiello. Di certo questo libro continua a stupire! Fammi sapere il tuo giudizio, mi raccomando.
Ma di certo Niffoi ha certamente un'altra caratura.
Atzeni non lo conosco e non ti nascondo che mi hai messo una certa curiosità... lo cercherò
grazie!
:-)
leggi atzeni, merita decisamente il libro che ti ho detto...sarà che io sto scoprendo la mia terra a venitquattro anni suonati, ma come ha romanzato lui la storia sarda...Mi sento un pò parte di una legenda non ancora conclusa...Leggilo e fammi sapere! E io al più presto leggerò mal di pietre...(ora mi sto cimentando con un libro sugli indiani d'america, in inglese...)
prometto che leggerò Atzeni e ti farò sapere :-) anche se la mia lista d'attesa è piuttosto lunga. La Francese, inoltre, mi ha appena regalato il nuovo libro di Nathan Englander, un evento assolutamente inperdibile.
a presto
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