Mio nonno si chiamava Igino, un nome diffuso dalle sue parti. Il Veneto. Nel cinquantatre entrò in acciaieria, uno di quei contadini mutati in operai. Veniva dalla campagna, dalle vigne agre di quegli anni, troppo avare per saziare una moglie e una figlia in arrivo. E la fabbrica cercava lavoratori. Il boom gonfiava le commesse e il nonno contribuiva al progresso affrontando l’alto forno.
Lui non era il tipo che beve da solo. Lontano dalla vigna, lontano da mia nonna e da sua figlia, passò due anni in questa valle. E poi salì sul treno, tornò a prendere quel che gli spettava. A mia nonna disse di aver posato i semi di una vita lontana dal Veneto. Lei riempì la valigia, coprì mia mamma di vecchi vestiti, lasciò per poche lire i mobili ai vicini.
E nemmeno uno sguardo alla vite.
Ad Aosta mia nonna trovò un appartamento in affitto, il salario di suo marito, la promessa di una nuova casa. Ma non erano i soli semi che Igino aveva piantato.
Mio nonno era un uomo che non sapeva risparmiarsi e non lasciava che gli altri lo facessero. Mia mamma ha impastato cemento, trasportato mattoni, spalato terra. La casa non era nemmeno finita il giorno che mio nonno decise di portarci la sua famiglia. Appena una stanza e il bagno, l’umidità di novembre che si condensava nelle gocce che cadevano sull’unico letto. Aveva comprato il terreno sul lato in ombra della valle, nemmeno troppo lontano dal fiume. Oltre la sponda l’acciaieria e la città. Un terreno per pochi soldi. E una vigna. Il contadino si prendeva la rivincita sull’operaio. Igino, ogni giorno, levava gli occhiali oscurati e la tuta da lavoro per scendere tra le viti. Sfiorava le foglie con i palmi, tastava gli acini sotto i polpastrelli. E poi urlava a mia madre adolescente di star lontana dagli uomini. "Non tornare con la pancia o scavo un fosso in fondo alla vigna e vi butto dentro. Ti e to mare". Ricordo come il suo sguardo sapeva essere duro anche con me, le sue minacce al mio pallone che finiva tra i filari. Ma sapeva anche sorridere, quando guardava in controluce una bottiglia di vino giovane. O quando l’odore di mosto saliva dalla cantina e lui prendeva mio padre per un braccio scendendo le scale con quella gran voce che diceva com’era stata buona quell’annata. Perché lui non era il tipo che beve da solo.
"Igino". Ricordo ancora l’etichetta. Mio nonno diede il suo nome al vino che produceva. E mia madre si sposò prima di finire nel fosso in fondo alla vigna. Io sono arrivato così presto che quell’anno ha potuto ultimare i suoi lavori di sarta senza scendere a vendemmiare. C’era mio padre a staccare i grappoli, a riempire le cassette. C’erano le sue mani a torchiare, quelle del nonno a insegnare.
Lui non era il tipo che beve da solo.
Avevo dieci anni e lui settanta, il giorno che uscì di casa stringendo una valigia mentre mia nonna dalla finestra urlava maledizioni nel suo antico vicentino. Guardavo dal vialetto di casa con il pallone tra i piedi mentre lui saliva dalla cantina caricando le bottiglie di "Igino" nella macchina. Mia nonna stava ancora urlando quando salì sull’auto e mise in moto. "Tirte via!", fu il suo saluto, il giorno che decise di bere il suo vino insieme a un’altra donna. Da quel giorno, ogni mese, per ordine del giudice, a mia nonna arrivò un assegno di duecentomila lire. Sempre puntuale, appena la mamma aveva pagato al nonno le duecentomila dell’affitto di casa.
Ma le maledizioni della nonna ricominciarono il giorno che quell’uomo suonò alla porta. Aveva la faccia del nonno, le sue mani a tenaglia, ma una voce gentile e l’età della mamma. "Sono tuo fratello", le disse sulla porta, "nostro padre è morto, finalmente ci conosciamo".
Mio nonno non è mai stato il tipo che beve da solo.
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3 commenti:
Grande! Per San Martino (11 novembre) si parla di nonno Igino e del suo vino :)
che bel racconto
bravo
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