Stanotte ho sognato di entrare in Hokkaido alla guida della Poderosa. Ricordo che mi trovavo a percorrere un territorio roccioso e impervio, solcato da fiumi che avevano scavato canyon profondi. Avanzavo su quelle strade dissestate mettendo alla prova le già precarie sospensioni di quel mezzo assolutamente inadatto ripetendomi ostinatamente che non sarei tornato indietro finché non avrei trovato un'officina specializzata in auto francesi e un villaggio Ainu in cui fermarmi per alcuni anni sull'esempio dei più celebri etnografi d'altri tempi.
Ad ogni sobbalzo tornavo a immaginare Ruth Benedict sul sedile accanto al mio o m'immaginavo Margaret Mead che m'incitava a proseguire con queste parole: oh Nathan, Franz sarebbe fiero di te!
E allora proseguivo, nonostante le scarpate franose, le curve improvvise, il mezzo che mal rispondeva ai miei comandi.
Ma non dicevano che l'Hokkaido è piatto e boscoso? Sospiravo tra me. Questo paesaggio è più simile al Khyber pass delle spedizioni Overland della Rai che a un'idea nordica del Giappone.
Ma alla mia sensibilità di minoranza nella minoranza, di ex-bambino di lingua italiana cresciuto in una regione orgogliosamente abbarbicata alle sue origini francofone, la diversità di questi nativi giapponesi non poteva passare inosservata.
Non avevo nessuna intenzione di fare un'inversione a U e rientrare nella rassicurante isola di Honshu. Conoscevo così poco quest'etnia pre-giapponese, ma abbastanza da desiderarne un contatto diretto del terzo tipo (seppur escludessi quelli del quarto e del quinto).
Ma in fin dei conti, che cosa sapevo degli Ainu e che cosa mi attirava della loro storia al punto da essermi infilato in quel luogo inospitale senza nemmeno una mappa e nessun distributore di bibite fresche all'orizzonte?
Ricordare tutti i particolari di un sogno non è mai impresa di poco conto, soprattutto se stai cercando di farlo quando il crespuscolo della giornata successiva sta scendendo sulle montagne.
Degli Ainu sapevo che popolavano buona parte dell'arcipelago prima che i progenitori degli attuali giapponesi calassero (probabilmente attraverso il "molo" coreano) sul Giappone meridionale e da qui iniziassero la loro millenaria conquista fino a confinare gli Ainu alla più settentrionale delle isole principali. Sapevo che in epoca Meiji l'espansionismo giapponese e la necessità di arginare l'invadenza dell'impero Russo consentirono l'annessione delle rigogliose terre dell'Hokkaido con la conseguente creazione di vere e proprie riserve dove gli Ainu non assoggettati alle meticolose campagne di assimilazione, da sempre cacciatori e raccoglitori, furono relegati a coltivare le terre meno fertili.
Sapevo che si distinguono dai giapponesi, oltre che per la lingua (ormai quasi scomparsa, ma oggetto di un forse tardivo recupero e ancora rintracciabile in molto toponimi giapponesi - Vedi Fuji) anche per i caratteri somatici. Molto più villosi dei giapponesi (da cui si distinguono a prima vista per le lunghe barbe, almeno chi ancora decide di lasciarsela crescere), hanno i capelli mossi e in qualche caso gli occhi chiari, tutte peculiarità che raffigurano lo stigma di ogni possibile discriminazione.
Ridotti a poche decine di migliaia gli Ainu (almeno quelli che si dichiarano tali in un paese dove, per molto tempo, appartenere a una minoranza, si tratti di coreani, ainu o hibakusha, è stata una vergogna innominabile) vivono ormai in piccole comunità minacciate dall'abuso di alcool, intrattendo i turisti con danze e la rituale (in questo caso incruenta) cerimonia di uccisione dell'orso.
Che cosa sapevo insomma di questo popolo? Poco, pochissimo, quasi nulla. Per questo spingevo sull'acceleratore aggirando i massi scivolati sulla carreggiata e pregando che la sede stradale non cedesse sotto il peso della Poderosa.
Volevo vederli da vicino, gli ultimi rappresentanti di questo popolo sconfitto dalla storia, ma ancora, nonostante tutto, sopravvissuto. Volevo conoscere dalle loro voci gli sforzi che si stanno compiendo per la conservazione della loro antica cultura, sapere quali iniziative la Dieta stava attuando in questa direzione, ascoltare le aspirazioni di chi ancora non si rassegna alla scomparsa.
Inutile dire qui che al villaggio Ainu, in quel sogno, non ci sono mai arrivato. Ricordo solo che la strada a strapiombo sul canyon improvvisamente si è interrotta e la pur pronta frenata della Poderosa non è riuscita a evitarmi di precipitare in una lunga interminabile discesa nell'oblio di un mattino ancora lontano.
Ad ogni sobbalzo tornavo a immaginare Ruth Benedict sul sedile accanto al mio o m'immaginavo Margaret Mead che m'incitava a proseguire con queste parole: oh Nathan, Franz sarebbe fiero di te!
E allora proseguivo, nonostante le scarpate franose, le curve improvvise, il mezzo che mal rispondeva ai miei comandi.
Ma non dicevano che l'Hokkaido è piatto e boscoso? Sospiravo tra me. Questo paesaggio è più simile al Khyber pass delle spedizioni Overland della Rai che a un'idea nordica del Giappone.
Ma alla mia sensibilità di minoranza nella minoranza, di ex-bambino di lingua italiana cresciuto in una regione orgogliosamente abbarbicata alle sue origini francofone, la diversità di questi nativi giapponesi non poteva passare inosservata.
Non avevo nessuna intenzione di fare un'inversione a U e rientrare nella rassicurante isola di Honshu. Conoscevo così poco quest'etnia pre-giapponese, ma abbastanza da desiderarne un contatto diretto del terzo tipo (seppur escludessi quelli del quarto e del quinto).
Ma in fin dei conti, che cosa sapevo degli Ainu e che cosa mi attirava della loro storia al punto da essermi infilato in quel luogo inospitale senza nemmeno una mappa e nessun distributore di bibite fresche all'orizzonte?
Ricordare tutti i particolari di un sogno non è mai impresa di poco conto, soprattutto se stai cercando di farlo quando il crespuscolo della giornata successiva sta scendendo sulle montagne.
Degli Ainu sapevo che popolavano buona parte dell'arcipelago prima che i progenitori degli attuali giapponesi calassero (probabilmente attraverso il "molo" coreano) sul Giappone meridionale e da qui iniziassero la loro millenaria conquista fino a confinare gli Ainu alla più settentrionale delle isole principali. Sapevo che in epoca Meiji l'espansionismo giapponese e la necessità di arginare l'invadenza dell'impero Russo consentirono l'annessione delle rigogliose terre dell'Hokkaido con la conseguente creazione di vere e proprie riserve dove gli Ainu non assoggettati alle meticolose campagne di assimilazione, da sempre cacciatori e raccoglitori, furono relegati a coltivare le terre meno fertili.
Sapevo che si distinguono dai giapponesi, oltre che per la lingua (ormai quasi scomparsa, ma oggetto di un forse tardivo recupero e ancora rintracciabile in molto toponimi giapponesi - Vedi Fuji) anche per i caratteri somatici. Molto più villosi dei giapponesi (da cui si distinguono a prima vista per le lunghe barbe, almeno chi ancora decide di lasciarsela crescere), hanno i capelli mossi e in qualche caso gli occhi chiari, tutte peculiarità che raffigurano lo stigma di ogni possibile discriminazione.
Ridotti a poche decine di migliaia gli Ainu (almeno quelli che si dichiarano tali in un paese dove, per molto tempo, appartenere a una minoranza, si tratti di coreani, ainu o hibakusha, è stata una vergogna innominabile) vivono ormai in piccole comunità minacciate dall'abuso di alcool, intrattendo i turisti con danze e la rituale (in questo caso incruenta) cerimonia di uccisione dell'orso.
Che cosa sapevo insomma di questo popolo? Poco, pochissimo, quasi nulla. Per questo spingevo sull'acceleratore aggirando i massi scivolati sulla carreggiata e pregando che la sede stradale non cedesse sotto il peso della Poderosa.
Volevo vederli da vicino, gli ultimi rappresentanti di questo popolo sconfitto dalla storia, ma ancora, nonostante tutto, sopravvissuto. Volevo conoscere dalle loro voci gli sforzi che si stanno compiendo per la conservazione della loro antica cultura, sapere quali iniziative la Dieta stava attuando in questa direzione, ascoltare le aspirazioni di chi ancora non si rassegna alla scomparsa.
Inutile dire qui che al villaggio Ainu, in quel sogno, non ci sono mai arrivato. Ricordo solo che la strada a strapiombo sul canyon improvvisamente si è interrotta e la pur pronta frenata della Poderosa non è riuscita a evitarmi di precipitare in una lunga interminabile discesa nell'oblio di un mattino ancora lontano.
7 commenti:
ma che sogni belli che fai AmoreMio quando ti sto vicino :)
peccato che tra pochi minuti è già lunedì
Il mio primo ricordo del viaggio in Hokkaido e' quello di nomi di luoghi con caratteri che non sapevo assolutamente come pronunciare (e nemmeno gli amici giapponesi lo sapevano). Nomi Ainu appunto. La stessa cosa mi e' successa a Okinawa, non sapevo mai come leggere i nome delle citta' e dei paesini che attraversavamo.
cari Nathan e LaFrancese, solo oggi per la prima volta mi sono soffermata realmente sul titolo del vostro blog.
L'ho trovato veramente bello e ricco di promesse di fiducia.
Eh, meglio tardi che mai...
grazie Lucilla, :)
cose incredibili!! :)
Hello Guru, what entice you to post an article. This article was extremely interesting, especially since I was searching for thoughts on this subject last Thursday.
rH3uYcBX
Keep working ,great job!
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