Tornati dalla babele di religioni, da un crocevia di rancori, di klingoniani astiosi, di androidi armati e vulcaniani pacificati. Gerusalemme.
Siamo tornati dalle incrostazioni di sale del mar morto, dalla spa notturna che riconcilia il corpo con l'anima, dall'alba che accende i colori del deserto.
Tornati da Tel Aviv, che fai un passo e sembra Rimini, ne fai un altro e sei a Beirut, svolti l'angolo e ritorni in Palestina.
Siamo andati laggiù per la prima volta, dopo esserci stati un milione di volte, piegati sulle pagine di Nathan Englander e Philip Roth, di Abraham Yehoshua e Amos Oz. Per anni abbiamo scrutato l'animo hassidim tre le parole di Chaim Potok e vissuto negli Shtetl di Isaac Singer.
E allora ci siamo andati, tra quelli che credono che Israele - a torto o a ragione - debba essere uno Stato di questo mondo e non solo il Regno dei Cieli.
Abbiamo ascoltato le preghiere rivolte alle pietre di un muro, valicato la porta del Monte del Tempio che conduce allo splendore delle Moschee.
E comprato datteri e dolciumi dai venditori arabi.
Ma qualcosa, l'abbiamo trascurato.
Per la durata di questo brevissimo viaggio, la questione bruciante di chi è stato respinto, deportato, umiliato.
Abbiamo scelto di rimanere al di qua della Linea Verde, per questa volta.
Ci siamo commossi, ai riti senza fedeli della Chiesa armena, emozionati davanti ai copti dell'Etiopia.
E ci siamo guardati senza poter formulare un pensiero preciso, un vernerdì sera, di ritorno dal muro del pianto attraverso il quartiere mussulmano della città vecchia.
Una lunga teoria di hassidim con i loro cappotti svolazzanti, i cappelli tondi di pelliccia, le basette intrecciate e il passo svelto tra i banchi di frutta dei mercanti palestinesi e le donne velate. Come non notare quel loro vicendevole ignorarsi? E quei giovani, poi, gli studenti nazionalisti delle yeshiva che urlavano i canti dello shabbat, come a sfidare la rumorosa tranquillità del souq in quella loro corsa arrogante tra il muro del pianto e la porta di Damasco.
E i bambini, infine, i bambini palestinesi che si burlavano con piccoli gesti da bulletti dei loro coetanei con la kippà, le basette arricciate e la camicia immacolata.
Questa volta abbiamo tracurato l'altra faccia di Israele.
4 commenti:
gran bel viaggio!
è nel programma di posti in cui voglio andare anche io!
grazie per le foto!
ciao
bellissimo. veramente fantastico. credo che le lacerazioni dei piedi facciano parte di ogni posto che si vive da dentro, con il corpo e con la mente. da veneziana so che significa. :)
Un viaggio dove è inevitabile pensare, riflettere, considerare. Deve averti lasciato tanto. Ciao mi chiamo Tiziana.
un gran bel viaggio in effetti, assai particolare, assai penetrante "dentro" con riflessioni e commenti anche non detti sulla propria vita
grazie per aver lasciato un commento ^_^
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