Domenica sera usciamo da quel cinema in capo al mondo con gli occhi pieni di colori d’India e nel petto l’emozione di una storia che attraversa un terzo di secolo tra Calcutta e New York. “Il destino nel nome” di Mira Nair è la trasposizione cinematografica di “L’omonimo”, il romanzo che ha consacrato l’indo-americana Jhumpa Lahiri sulla scena letteraria mondiale. Ashoke e Ashima, nella più classica delle ambientazioni indiane, vengono fatti incontrare dalle famiglie a scopo di matrimonio. Ashoke è ricercatore universitario a New York, ed è in quella gelida e sconosciuta città che porta la sua sposa avvolta nel sari. Il loro primo figlio, chiamato Gogol in omaggio al grande scrittore russo (l’omonimo, eponimo del romanzo della Lahiri) e la sorella minore Sonia, sono i classici immigrati di seconda generazione, con un piede nella terra d’origine e la naturalezza un po’ sfrontata di rampolli di una tipica famiglia borghese dei sobborghi, versione intellettuale di una pastorale americana in salsa indiana. Ma è su Gogol che la lente di Lahiri-Nair si concentra. E’ il contrasto tra una madre che non smetterà mai l’abito tipico della sua origine e un figlio travestito da rockettaro, laureato ad Yale, innamorato di una bionda WASP dell’alta borghesia della East Coast. Abbacinato dai lucori di una scintillante american way of life, Gogol (deciso a farsi chiamare Nickil) trascorrerà il compleanno nella villa vittoriana del New England con la famiglia della fidanzata, trascurando la sua e dimenticando persino di chiamare casa il giorno il cui suo padre partirà per tenere un corso di sei mesi all’Università dell’Ohio.
La morte improvvisa di Ashoke ricondurrà a casa un Gogol tormentato dai sensi di colpa, deciso a recuperare il rapporto con la madre e con la sua terra d’origine. Gogol abbandonerà la fidanzata americana, si raserà i capelli e vestirà di bianco in segno di lutto. Accompagnerà la famiglia a spargere, in una cerimonia solenne, le ceneri del padre sulle rive del Gange.
“Il destino nel nome” è un film che abbraccia un arco di tempo di più di trent’anni. Come il libro. Ma il film avrebbe potuto finire a questo punto e invece continua, seguendo la traccia del romanzo fino al matrimonio di Gogol (e alla sua crisi), al fidanzamento di Sonia e al ritorno di Ashima a Calcutta, alle sue lezioni di canto accompagnata dal sitar.
Se questo film, dotato di un’apprezzabile grazia nella narrazione, di buone interpretazioni (soprattutto quella di Tabu, l’attrice di Bollywood nella parte di Ashima), di una fotografia che scalda il cuore con i contrasti di colore tra un’India scalcinata ed esuberante e la tonalità grigio-blu della costa orientale d’America, se questo film, dicevo, ha un difetto è quello di voler abbracciare un periodo di tempo troppo lungo, di voler quindi raccontare troppo (con eccessi didascalici) nelle sue 2 e ore e un quarto di durata.
Ma è un film da vedere, a costo di raggiungere un cinema in capo al mondo, seduti in una sala piccola e male attrezzata. Ed è un libro da riprendere, quello di Jhumpa Lahiri, per calarsi nei ritmi del romanzo, osservare come la scrittrice ha affrontato il lungo lasso di tempo della storia, come ha organizzato i flash back, i diversi piani temporali, come la scrittura sia un mezzo più naturale e completo per descrivere la crescita intellettuale ed affettiva di un personaggio, affrescare il contesto in cui l’intreccio si svolge, descrivere l’evoluzione di un matrimonio combinato che sfocia in amore inattaccabile e quella di un matrimonio d’amore frantumato dalla quotidianità.
Dice Ian McEwan (non lo nascondo uno dei miei scrittori viventi preferiti) in una bella intervista con Martin Amis sul rapporto da letteratura e cinema apparsa su Repubblica del 2 giugno (pag. 35): “Ritengo che la letteratura sia una forma espressiva superiore al cinema. Il romanzo si è dimostrato uno strumento brillante per esprimere ad esempio gli stati d’animo e il flusso dei sentimenti. Riesce inoltre a rendere il vero sapore di cosa significhi essere qualcun altro. È difficile che i film riescano a rendere con eguale forza e precisione sensazioni del genere. Anche quando si ha a disposizione un buon attore, o si fa uso di una particolare fotografia, gli strumenti appaiono a mio avviso sempre insufficienti, e spesso artificiali. Pensa ad esempio all’uso della voce fuori campo. Su questo punto mi piace rispondere citando Conrad, che nell’introduzione al Negro del Narciso dice che quello che vuole di più di ogni altra cosa è “far vedere” quello che racconta. Questa è la grande differenza: al cinema l’immagine è già lì, la vedi… la regola che do a me stesso quando scrivo è rendere bene l’aspetto visivo. Il resto viene di conseguenza. E posso dirti che non penso affatto al cinema”.
Ma certo, lui è di parte.
Di questo e d’altro (soprattutto d’altro) abbiamo discusso io e la Francese raggiunta in scooter quella libreria di Piazza della Repubblica aperta fino a mezzanotte. Un kebab alle dieci ha placcato la nostra fame di contaminazione. Un po’ pakistano po’ turco, non era purtroppo la fine del mondo quel kebad fiorentino al ritorno dal cinema in capo al mondo.
La morte improvvisa di Ashoke ricondurrà a casa un Gogol tormentato dai sensi di colpa, deciso a recuperare il rapporto con la madre e con la sua terra d’origine. Gogol abbandonerà la fidanzata americana, si raserà i capelli e vestirà di bianco in segno di lutto. Accompagnerà la famiglia a spargere, in una cerimonia solenne, le ceneri del padre sulle rive del Gange.
“Il destino nel nome” è un film che abbraccia un arco di tempo di più di trent’anni. Come il libro. Ma il film avrebbe potuto finire a questo punto e invece continua, seguendo la traccia del romanzo fino al matrimonio di Gogol (e alla sua crisi), al fidanzamento di Sonia e al ritorno di Ashima a Calcutta, alle sue lezioni di canto accompagnata dal sitar.
Se questo film, dotato di un’apprezzabile grazia nella narrazione, di buone interpretazioni (soprattutto quella di Tabu, l’attrice di Bollywood nella parte di Ashima), di una fotografia che scalda il cuore con i contrasti di colore tra un’India scalcinata ed esuberante e la tonalità grigio-blu della costa orientale d’America, se questo film, dicevo, ha un difetto è quello di voler abbracciare un periodo di tempo troppo lungo, di voler quindi raccontare troppo (con eccessi didascalici) nelle sue 2 e ore e un quarto di durata.
Ma è un film da vedere, a costo di raggiungere un cinema in capo al mondo, seduti in una sala piccola e male attrezzata. Ed è un libro da riprendere, quello di Jhumpa Lahiri, per calarsi nei ritmi del romanzo, osservare come la scrittrice ha affrontato il lungo lasso di tempo della storia, come ha organizzato i flash back, i diversi piani temporali, come la scrittura sia un mezzo più naturale e completo per descrivere la crescita intellettuale ed affettiva di un personaggio, affrescare il contesto in cui l’intreccio si svolge, descrivere l’evoluzione di un matrimonio combinato che sfocia in amore inattaccabile e quella di un matrimonio d’amore frantumato dalla quotidianità.
Dice Ian McEwan (non lo nascondo uno dei miei scrittori viventi preferiti) in una bella intervista con Martin Amis sul rapporto da letteratura e cinema apparsa su Repubblica del 2 giugno (pag. 35): “Ritengo che la letteratura sia una forma espressiva superiore al cinema. Il romanzo si è dimostrato uno strumento brillante per esprimere ad esempio gli stati d’animo e il flusso dei sentimenti. Riesce inoltre a rendere il vero sapore di cosa significhi essere qualcun altro. È difficile che i film riescano a rendere con eguale forza e precisione sensazioni del genere. Anche quando si ha a disposizione un buon attore, o si fa uso di una particolare fotografia, gli strumenti appaiono a mio avviso sempre insufficienti, e spesso artificiali. Pensa ad esempio all’uso della voce fuori campo. Su questo punto mi piace rispondere citando Conrad, che nell’introduzione al Negro del Narciso dice che quello che vuole di più di ogni altra cosa è “far vedere” quello che racconta. Questa è la grande differenza: al cinema l’immagine è già lì, la vedi… la regola che do a me stesso quando scrivo è rendere bene l’aspetto visivo. Il resto viene di conseguenza. E posso dirti che non penso affatto al cinema”.
Ma certo, lui è di parte.
Di questo e d’altro (soprattutto d’altro) abbiamo discusso io e la Francese raggiunta in scooter quella libreria di Piazza della Repubblica aperta fino a mezzanotte. Un kebab alle dieci ha placcato la nostra fame di contaminazione. Un po’ pakistano po’ turco, non era purtroppo la fine del mondo quel kebad fiorentino al ritorno dal cinema in capo al mondo.
5 commenti:
E ovviamente voglio leggere il libro e vedere il film!
Grazie per avere inviato la tua avventura d'infanzia nel mio blog :P :)
il film è un po' lungo ma molto bello, avrei preferito un po' più India, ma ieri ho rimediato, ho messo tutti i braccialetti che avevo, facevo tanto rumore che i colleghi me lo ha fatto notare!
...aspettando la danza che Nathan mi ha promesso :)
Il libro mi era piaciuto un sacco, voglia di India incredibile ma anche della cosmopolita New York...Ora mi tocca il film! :-)
Benvenuta Dontyna!
facci sapere se il film, come accade spesso se hai letto prima il libro, ti sarà sembrato poca (e striminzita) cosa.
:-)
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