giovedì 9 ottobre 2008

Andrea

Alle elementari contendeva il posto di ultimo della classe a una bambina dalla peluria precoce ma che nemmeno sfiorava la sua creatività buffonesca. Andrea aveva un talento per le interrogazioni alla lavagna. Quando non sapeva più cosa rispondere - e succedeva ogni volta - iniziava a inventare, sparava risposte insensate per il solo gusto di ascoltare le risate che salivano dalla classe e guardare la rabbia che colorava il viso della maestra.

Abitava a meno di trenta metri da casa mia. Di casa sua ricordo la penombra perenne e l'odore acuto di cucinato, l'immagine delle sorelline con la faccia nell'imbuto dell'aerosol che cercavano inutilmente di ribellarsi a quella tortura con la sola arma del pianto.

Ricordo una festa di compleanno in terrazza. E forse a quel punto eravamo già alle medie. Ricordo quella macchinina da rally che gli regalai, quelle cinquemila lire che avevo speso per la sua festa. Alla fine, preso in disparte, mi disse che il mio regalo gli era piaciuto più di tutti.
Aveva la capacità di tenersi lontano dalle risse in cui tutti ci infilavamo a quell'epoca, fuori e dentro la scuola. Quel suo buon senso - che non sapevamo chiamare "saggezza" e che suonava stonato in bocca a un bambino così piccolo, anche di statura - faceva il pari con la coerenza dei comportamenti che seguivano le parole.

Lo persi di vista fino al giorno della visita di naja. Alle medie ci avevano diviso e poi io a ragioneria e lui alla scuola di fabbrica, di questa immensa acciaieria che domina la valle. Suo padre quella mattina ci accompagnò alla stazione. Lui era ormai un ragazzo magro dai modi gentili e i lineamenti dolci. Mentre imboccava il sottopassaggio, suo padre mi richiamò e mi disse di tenerlo d'occhio, Torino era una città sconosciuta e suo figlio da casa non si era mai allontanato. Dissi di sì, che l'avrei tenuto d'occhio, anche se a Torino - questo non lo dissi - nei miei primi diciott'anni, non c'ero andato neanch'io.

Aveva vent'anni, Andrea, o uno in più, quando prese un tubo flessibile, lo attaccò allo scappamento della sua auto, incastrò l'altro capo nel finestrino e mise in moto.

Al funerale trovai la maestra e i compagni delle elementari. Qualcuno era iscritto all'università, qualcuno era disoccupato, altri cercavano ancora di finire la scuola. Suonava così strano quel clima da reunion sulla strada per la tomba di uno di noi.

Ricordo la voce di sua madre e il suo pianto. Ricordo di aver pensato che era uguale alla voce di mia madre, di aver chiuso gli occhi e immaginato come (non) mi sarei sentito se quel pianto disperato fosse davvero stato il suo.

La incontrai spesso, sua madre, sulla strada tra casa sua e la chiesa. Ogni volta le dissi solo buongiorno, a quella donna da cui il grasso sembrava improvvisamente colato via, senza nemmeno una parola in più. In lei sempre lo sguardo a terra, un mezzo saluto in risposta, col tempo anche un accenno di sorriso. Dentro di me un confuso senso di colpa, quella di esserci, al contrario di lui.

Ricordo di averlo incontrato, sarà stato un anno prima. Un paio di baffetti sotto quel naso a punta, lo stesso sguardo ilare delle interrogazioni alla lavagna. Tra quelle poche parole che scambiammo, pensai a quanto eravamo diversi. Da lui mi allontanava un gergo che non sapevo dove si era costruito, un percorso di vita che nemmeno conoscevo e uno sguardo sulle cose, così mi sembrò allora, troppo inconsapevolmente ottimista.

Pensavo ad Andrea, l'altra notte. O forse l'ho sognato. Quante volte è successo in tutti questi anni.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

questo post e' bellissimo. Mi ha riportato immediatamente indietro a cose che pensavo di aver riposto definitivamente. Sara' che in queste notti anche io sogno continuamente di chi se ne e' andato

Anonimo ha detto...

:-) sai lucillì che sono proprio certi tuoi post brillantemente nostalgici ad aver ispirato il tono di questo

Anonimo ha detto...

:D

Baol ha detto...

Meraviglioso e tristissimo post

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