Venerdì, sabato e domenica.
Una giornata intera (sabato) e due mezze.
Cinque ore di treno occorrono alla Francese per arrivarci.
Molte meno per me.
Due lunghe notti solo per noi.
Torino è la città dei miei anni universitari, la metropoli che sovverte le abitudini della vita di provincia, la Grande Suggestione per un ventenne cresciuto nell’orizzonte limitato del piccolo centro. Ma una metropoli riservata e discreta, fino al decennio scorso, rassegnata a una deriva post industriale a cui non sapeva trovare una via d’uscita. Ricordo le serate d’inverno dei suoi viali abbandonati al dominio delle auto a ottanta all’ora, gli zombi che succhiavano vino dal cartone caracollando sui marciapiedi di via Nizza, i portici che si svuotavano dopo le otto, gli unici angoli animati quelli conquistatati dai richiami festosi dei pusher o dall’antagonismo della cultura underground degli squatters. Ricordo i tram che partivano da Mirafiori a fine turno, quelle facce schiacciate contro il finestrino dal peso della stanchezza di otto ore di lavoro.
Ricordo una Torino così. Una città che oggi sembra non esserci più, cancellata da anni di rinnovamento urbano, di rilancio culturale, di iniezioni di ottimismo, di investimenti di capitale e di restauro morale. La Torino depressa degli anni Novanta non esiste più, oppure, si è solo nascosta sotto lo spesso strato di sapiente maquillage.
Torino è capitale di cultura, sede di un’Università e del Politecnico, la città del libro e della sua Fiera, del Museo Egizio, del scintillante Palazzo Madama, della Galleria d’arte moderna e contemporanea, delle Olimpiadi invernali 2006, quel grande colpo di reni finale che ha inserito la città nei circuiti turistici internazionali.
Il mio appuntamento settimanale con la Francese non poteva non giungere anche qui.
All’una sono sulla spianata di chioschetti, edicole e bar a ridosso dei binari della Stazione di Porta Nuova. La trovo a sfogliare giornali davanti a un porta riviste, la mia Francese, fallendo il mio tentativo di sorprenderla di spalle per baciarla sul collo prima che si accorga del mio arrivo. Stretta nella sua giacca di tela imbottita e allacciata in alamari di metallo. Senza cappello, senza occhiali. Mi mostra i suoi libri di architettura che appesantiscono la borsa, mi snocciola le sue nozioni sullo Juvarra, il Guarini, il Liberty di fine Ottocento, tra un bacio e l’altro, dentro un lungo abbraccio.
E andiamo, il mio zaino e il suo borsone con me, la sua mano nella mia, il mio sguardo nel suo, le labbra sulle labbra, attraverso il grande atrio e infine fuori, alla luce di Corso Vittorio Emanuele.
Una giornata intera (sabato) e due mezze.
Cinque ore di treno occorrono alla Francese per arrivarci.
Molte meno per me.
Due lunghe notti solo per noi.
Torino è la città dei miei anni universitari, la metropoli che sovverte le abitudini della vita di provincia, la Grande Suggestione per un ventenne cresciuto nell’orizzonte limitato del piccolo centro. Ma una metropoli riservata e discreta, fino al decennio scorso, rassegnata a una deriva post industriale a cui non sapeva trovare una via d’uscita. Ricordo le serate d’inverno dei suoi viali abbandonati al dominio delle auto a ottanta all’ora, gli zombi che succhiavano vino dal cartone caracollando sui marciapiedi di via Nizza, i portici che si svuotavano dopo le otto, gli unici angoli animati quelli conquistatati dai richiami festosi dei pusher o dall’antagonismo della cultura underground degli squatters. Ricordo i tram che partivano da Mirafiori a fine turno, quelle facce schiacciate contro il finestrino dal peso della stanchezza di otto ore di lavoro.
Ricordo una Torino così. Una città che oggi sembra non esserci più, cancellata da anni di rinnovamento urbano, di rilancio culturale, di iniezioni di ottimismo, di investimenti di capitale e di restauro morale. La Torino depressa degli anni Novanta non esiste più, oppure, si è solo nascosta sotto lo spesso strato di sapiente maquillage.
Torino è capitale di cultura, sede di un’Università e del Politecnico, la città del libro e della sua Fiera, del Museo Egizio, del scintillante Palazzo Madama, della Galleria d’arte moderna e contemporanea, delle Olimpiadi invernali 2006, quel grande colpo di reni finale che ha inserito la città nei circuiti turistici internazionali.
Il mio appuntamento settimanale con la Francese non poteva non giungere anche qui.
All’una sono sulla spianata di chioschetti, edicole e bar a ridosso dei binari della Stazione di Porta Nuova. La trovo a sfogliare giornali davanti a un porta riviste, la mia Francese, fallendo il mio tentativo di sorprenderla di spalle per baciarla sul collo prima che si accorga del mio arrivo. Stretta nella sua giacca di tela imbottita e allacciata in alamari di metallo. Senza cappello, senza occhiali. Mi mostra i suoi libri di architettura che appesantiscono la borsa, mi snocciola le sue nozioni sullo Juvarra, il Guarini, il Liberty di fine Ottocento, tra un bacio e l’altro, dentro un lungo abbraccio.
E andiamo, il mio zaino e il suo borsone con me, la sua mano nella mia, il mio sguardo nel suo, le labbra sulle labbra, attraverso il grande atrio e infine fuori, alla luce di Corso Vittorio Emanuele.
6 commenti:
:-) un titolo tutto per me?!
timbuctù amore mio!
tutto il blog, amore, o almeno la mia metà, è per te
...mi ha sempre incuriosito Torino ed è nella lista dei miei prossimi viaggi..chissà, magari vado con il mio nathan!
è un piacere leggervi: la vostra maturità mi intriga e colma.
ape,
attorino ci DEVI andare.
facci sapere se ti servono indicazioni.
ciao
mi ricorderò di voi..
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