Ci ritorniamo, a Levanto, sulla spiaggia del nostro primo incontro. Non più clandestini, il nostro amore conclamato e dichiarato. La mia vita precedente – come sommariamente si può definire una casa per due costruita sull’affetto, la serenità, i progetti realizzati pezzo per pezzo, giorno dopo giorno – è rimasta alle spalle come i luoghi che si abbandonano per sempre imboccando l’autostrada con la folle tentazione di voltarsi a guardare indietro, ma la determinazione di aver preso la decisione giusta.
Ritorniamo a scrutarci la profondità degli occhi, a mischiare i nostri accenti così diversi, a stupire chiunque c’incontri per i nostri movimenti di coppia affiatata e il marchio sulle nostre pronunce di regioni lontane. Arrivo io sulla strada del lungomare dove ho parcheggiato la prima volta e vedo lei, da una buona mezz’ora in quell’oasi d’asfalto che è il parcheggio municipale, in piedi davanti alla sua auto, un romantico gilet di pile bianco dal collo alto a fasciarla fin sotto al mento, la mia Francese, con la spalla e la cervicale doloranti, dice lei, a causa dell’impeto amoroso dell’ultimo incontro.
Saliamo al Monte Mesco, dopo le naturali effusioni che durante la settimana sono state solo parole corse lungo il filo del telefono o lo schermo di una chat. Con l’auto, questa volta, risaliamo la carrozzabile con la mia auto fino al punto in cui la nostra ospite ci attende per accompagnarci a piedi attraverso una fitta boscaglia dove si nasconde il rustico bed and breakfast che abbiamo scelto per il nostro esilio di passione. E’ una costruzione a mezza costa sulla montagna, una casa uscita dalle pagine dei fratelli Grimm, con quella bellezza un po’ infantile e barocca delle pietre verniciate, le piastrelle leziosamente incastonate a formare figure bizzarre e spaventose, le porte invecchiate intorno agli intagli e gli archi in pietra a reggere le volte.
La nostra ospite, con quell’aria disinvolta di chi è abituato a dare confidenza agli estranei nel giardino di casa, mette in fila più parole di quante io possa afferrarne mentre curioso con lo sguardo intorno. Solo la rigidità della postura ed i limiti imposti alla visuale dalla difficoltà di ruotare il collo, permettono alla Francese di seguire con attenzione ogni parola, dopo che, l’avventata signora, vedendola uscire dall’auto con la tipica tensione del busto e la schiena inarcata della gestante, si è infelicemente complimentata con lei per la nascita futura. Ha lo sguardo attento, la mia Francese, e l’occhio teso a cogliere ogni possibile altro fraintendimento!
- Da dov’è che venite? -, spara a tradimento la signora.
Da dove veniamo? Chi si era detto che avrebbe risposto a questa immancabile domanda? Io, si era detto che avrei risposto io, ma la domanda casca davvero improvvisa, mi trova impreparato, al punto che posso solo balbettare (aiuto Francese, dov’è la tua proverbiale prontezza di spirito?), già, si era detto che avrei risposto io.
- Io sono di là -, fa la Francese.
- E io vengo di lì -, dico io fissando il vuoto. Mhm.
Ma alla padrona di casa le nostre disparate provenienze non sembrano essere motivo di ulteriori chiacchiere.
- Questa è la vostra stanza, ragazzi -, dice spingendo una bassa porta in legno un gradino sotto il livello del selciato, - abbiamo già acceso la stufa a legna.
Un grande letto con lo specchio incastonato nella testiera, una stufa fiammeggiante alla Hansel e Gretel, stencil ai muri, un vecchio armadio restaurato e una vista sul golfo da togliere il fiato. Di cos’altro potremmo aver bisogno in questi due giorni? Di cos’altro, per il resto della vita?
Usciamo a sera, io e la Francese – dopo le danze allo specchio, il vapore nella doccia, le carezze degli asciugamani al crepitare dei ceppi – scendiamo lungo il sentiero che va al paese, alla luce della torcia che ho portato da casa, sotto i rami coperti di foglie, sopra il mare nero e silenzioso.
Ancora baci dentro al buio, ancora emozioni che nascono dagli occhi e scavano nello stomaco, di quelle che scendono in profondità, a toccare luoghi che credevi sepolti e che ti afferrano come grandi mani, e ti sollevano e scuotono nell’aria fresca di questa notte d’inverno mediterraneo.
La cena è un aperitivo, di quelli in cui il bere è un pretesto per assaggiare, nel bar sul lato opposto della piazza su cui abbiamo pranzato il giorno del nostro primo incontro, una pratica da sbrigare per tornare al più presto ad occuparci l’uno dell’altra. C’è la passeggiata nelle vie semideserte, dopo, gli abbracci appoggiati ai muri delle case, le nostre parole d’amore e la sabbia sotto le scarpe della spiaggia. E poi di nuovo la salita lungo il sentiero, il cancello in ferro battuto, la porta in legno della stanza e il grande letto per noi.
Ritorniamo a scrutarci la profondità degli occhi, a mischiare i nostri accenti così diversi, a stupire chiunque c’incontri per i nostri movimenti di coppia affiatata e il marchio sulle nostre pronunce di regioni lontane. Arrivo io sulla strada del lungomare dove ho parcheggiato la prima volta e vedo lei, da una buona mezz’ora in quell’oasi d’asfalto che è il parcheggio municipale, in piedi davanti alla sua auto, un romantico gilet di pile bianco dal collo alto a fasciarla fin sotto al mento, la mia Francese, con la spalla e la cervicale doloranti, dice lei, a causa dell’impeto amoroso dell’ultimo incontro.
Saliamo al Monte Mesco, dopo le naturali effusioni che durante la settimana sono state solo parole corse lungo il filo del telefono o lo schermo di una chat. Con l’auto, questa volta, risaliamo la carrozzabile con la mia auto fino al punto in cui la nostra ospite ci attende per accompagnarci a piedi attraverso una fitta boscaglia dove si nasconde il rustico bed and breakfast che abbiamo scelto per il nostro esilio di passione. E’ una costruzione a mezza costa sulla montagna, una casa uscita dalle pagine dei fratelli Grimm, con quella bellezza un po’ infantile e barocca delle pietre verniciate, le piastrelle leziosamente incastonate a formare figure bizzarre e spaventose, le porte invecchiate intorno agli intagli e gli archi in pietra a reggere le volte.
La nostra ospite, con quell’aria disinvolta di chi è abituato a dare confidenza agli estranei nel giardino di casa, mette in fila più parole di quante io possa afferrarne mentre curioso con lo sguardo intorno. Solo la rigidità della postura ed i limiti imposti alla visuale dalla difficoltà di ruotare il collo, permettono alla Francese di seguire con attenzione ogni parola, dopo che, l’avventata signora, vedendola uscire dall’auto con la tipica tensione del busto e la schiena inarcata della gestante, si è infelicemente complimentata con lei per la nascita futura. Ha lo sguardo attento, la mia Francese, e l’occhio teso a cogliere ogni possibile altro fraintendimento!
- Da dov’è che venite? -, spara a tradimento la signora.
Da dove veniamo? Chi si era detto che avrebbe risposto a questa immancabile domanda? Io, si era detto che avrei risposto io, ma la domanda casca davvero improvvisa, mi trova impreparato, al punto che posso solo balbettare (aiuto Francese, dov’è la tua proverbiale prontezza di spirito?), già, si era detto che avrei risposto io.
- Io sono di là -, fa la Francese.
- E io vengo di lì -, dico io fissando il vuoto. Mhm.
Ma alla padrona di casa le nostre disparate provenienze non sembrano essere motivo di ulteriori chiacchiere.
- Questa è la vostra stanza, ragazzi -, dice spingendo una bassa porta in legno un gradino sotto il livello del selciato, - abbiamo già acceso la stufa a legna.
Un grande letto con lo specchio incastonato nella testiera, una stufa fiammeggiante alla Hansel e Gretel, stencil ai muri, un vecchio armadio restaurato e una vista sul golfo da togliere il fiato. Di cos’altro potremmo aver bisogno in questi due giorni? Di cos’altro, per il resto della vita?
Usciamo a sera, io e la Francese – dopo le danze allo specchio, il vapore nella doccia, le carezze degli asciugamani al crepitare dei ceppi – scendiamo lungo il sentiero che va al paese, alla luce della torcia che ho portato da casa, sotto i rami coperti di foglie, sopra il mare nero e silenzioso.
Ancora baci dentro al buio, ancora emozioni che nascono dagli occhi e scavano nello stomaco, di quelle che scendono in profondità, a toccare luoghi che credevi sepolti e che ti afferrano come grandi mani, e ti sollevano e scuotono nell’aria fresca di questa notte d’inverno mediterraneo.
La cena è un aperitivo, di quelli in cui il bere è un pretesto per assaggiare, nel bar sul lato opposto della piazza su cui abbiamo pranzato il giorno del nostro primo incontro, una pratica da sbrigare per tornare al più presto ad occuparci l’uno dell’altra. C’è la passeggiata nelle vie semideserte, dopo, gli abbracci appoggiati ai muri delle case, le nostre parole d’amore e la sabbia sotto le scarpe della spiaggia. E poi di nuovo la salita lungo il sentiero, il cancello in ferro battuto, la porta in legno della stanza e il grande letto per noi.
6 commenti:
Amore mio, è stupendo, come stupendo è stare tra le tue braccia e abbracciare i sogni, con te.
ti bacio e attendo con ansia che accada.
Solo una lenta preparazione del nostro romantico weekend, ormai la settimana non è che questo...
l'Umbria...sì, l'Umbria verde verde per accendere di rosso rosso la passione..
buon lunedì coppia.
arriverà anche l'Umbria, la già architettando... abbiamo un piccolo nido che ci aspetta :-)
che palle!
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